NOIR IN FESTIVAL


 

Recensioni dei film selezionati per l'edizione 2021 del Noir in Festival. I film sono disponibili gratuitamente a questo link: https://www.mymovies.it/ondemand/noir-in-festival/.

 

KARNAWAL di Juan Pablo Fèlix (Argentina) - CONCORSO INTERNAZIONALE

Recensione di Daniele Badella

L'opera prima di Juan Pablo Fèlix, esordiente con all'attivo esperienze nella factory del cinema argentino (è stato aiuto - tra gli altri - di Lucrecia Martel), è un piacevole coming of age dai dichiarati spunti autobiografici, che si muove a passo di danza con Cabra (Martin Lopez Lacci), sedicenne in guerra contro il mondo - e una situazione familiare disastrata - col sogno di affermarsi come ballerino di Malambo, caratteristica danza dei gauchos delle Pampas. L'immersione nel colore e nella tradizione locale del Carnevale argentino non scadono mai troppo nel folclore stereotipato, e i piedi di Cabra dettano il ritmo battendo il pavimento e la scena come nacchere rumorose. Ma se la storia propone più deviazioni lungo scenari e zone di frontiera poco battuti dal cinema mainstream (montagne desertiche e suggestivi paesaggi andini nella provincia di Jujuy, al confine argentino-boliviano), itinerario di crescita e tappe narrative del percorso di Cabra imboccano senza grandi variazioni la rotta del più comune family-drama on the road di tanto cinema (medio) indie americano da Sundance. Con la tentata, e inevitabilmente precaria, ricomposizione del nucleo affettivo che va in scena sullo stesso palco in cui si esibisce il sogno nel cassetto del ragazzo. Dando tregua ai conflitti, conservando l'urlo della ribellione, in un'atmosfera - letteralmente - un po' scolastica, ma dai toni sinceri. 
In un cast di meticciato artistico di freschi volti sconosciuti, spicca la presenza solida e ruvida del veterano Alfredo Castro nel ruolo del padre di Cabra, quasi offrendo una versione più disperatamente ironica e invecchiata del suo Raúl Peralta/Tony Manero che, uscito di prigione per subito ritornarci, non può certo dare a suo figlio alcuna lezione di ballo. E nemmeno di vita... 

Voto 6.5/10  

 

UNIDENTIFIED di Bogdan George Apetri (Romania) - CONCORSO INTERNAZIONALE

Recensione di Daniele Badella

Il cinema degli autori rumeni gode di ottima salute, confermando con Unidentified, dopo La Gomera (2019) di Corneliu Porumboiu e l'interessante Poppy Field (Camp de Meci, 2020) di Eugen Jebeleanu passato all'ultimo Torino Film Festival, sia la capacità di offrire un ritratto peculiare, intimista e svaporato, del neo-noir e del thriller suburbano, sia la volontà politica di agganciare il dramma individuale al cupo spaccato pessimista di una società colpevole e disagiata, chiusa in un imbuto di corporativismo malato e utili pregiudizi.
L'ispettore Florin è uno sgarruppato agente di polizia assediato dai debiti e con non meglio precisati problemi nella vita privata, votato ostinatamente alla risoluzione di un caso che sembra galleggiare nell'inerzia e nel lassismo dei colleghi e del capo del dipartimento (ci troviamo nei dintorni di Bucarest). Ma non tutto è come sembra, nelle intenzioni dell'uomo... Ed è proprio per depistare e ingenerare dubbi che il film di Bogdan George Apetri (si) prende tempo, dipanando lo sviluppo con lentezza voluta, ma propedeutica e funzionale alle successive evoluzioni narrative, anche a rischio di stallo e di far sbiadire l'interesse per la vicenda (per cui si richiede una certa iniziale pazienza, ampiamente ripagata), concedendo appena piccoli dettagli-spia (una tanica di benzina, inframezzi di musica classica) di future rivelazioni. In un'atmosfera assorta e dilatata e con sintomatica asciuttezza di toni e regia - il cui incombente occhio onnisciente si segnala più che altro nelle panoramiche a volo d'uccello sulla città e gli ambienti periferici che inghiottono i personaggi, pattern noto e caro a un altro noir europeo come La isla mínima (2014). Al passo di spostamenti e appostamenti di Florin le motivazioni seguono logiche confuse, sembrando girare a vuoto. Finché il disegno non si fa drammaticamente chiaro e produce un potente e radicale arco trasformativo del personaggio e dell'intrigo che lasciano segni indelebili.
E per quello che possiamo dire senza guastare il piacere della visione, in un'opera così opportunamente controllata, prosciugata di sottolineature stilistiche, il bellissimo movimento di macchina ascensionale che idealmente "unisce i punti" nodali dell'ordito narrativo, collegando tragicamente destini e alterne fortune di due personaggi (c'è la meticolosità scientifica del piano ma anche il ruolo del caso, nell'universo di Apetri), è un gesto registico dal forte connotato politico, che prova a salvaguardare, a identificare in modo lampante, almeno per lo spettatore, l'urgente evidenza di una verità sepolta nell'indifferenza generale, nella coltre protettiva offerta a chi, nella società, per quanto a mal partito, si trova dalla parte giusta. Che non corrisponde a quella della giustizia. 
Senza ombra di dubbio il film più spiazzante e convincente del Concorso, per cui a questo punto facciamo il tifo.

Voto 8/10 

 

GATECRASH di Lawrence Gough (Regno Unito) - CONCORSO INTERNAZIONALE

Recensione di Luca Orusa

Un’ora e venti minuti senza tregua e di pura tensione costituiscono il secondo lungometraggio di Lawrence Gough. La storia parla di Nicole e Steve, una giovane coppia. Una notte i due sono coinvolti in un incidente stradale che lascia una vittima, rimasta senza soccorso sull’asfalto. Rientrati a casa i due hanno un duro confronto rinfacciandosi le reciproche responsabilità quando un poliziotto suona alla porta. Apparentemente tutto sembra tornare alla normalità, ma dal nulla appare un pericoloso testimone che li ricatta e svela che forse l’incidente non è stato casuale.
L’inglese Gough dirige un thriller dal ritmo serratissimo che si sviluppa in appena due location e con quattro personaggi, interpretati in maniera non sempre convincente dal cast, tra cui spicca Anton Lesser, conosciuto dai più come Qyburn di Game of Thrones. Leggendo la pellicola da un punto di vista prettamente realistico, la sceneggiatura fa acqua da tutte le parti, con la sospensione dell’incredulità costantemente violata dagli eventi che si susseguono e dalle motivazioni incomprensibili dei personaggi. Ma non è questa la chiave di lettura giusta per comprendere il film, che può essere interpretato come la rappresentazione metaforica della tossicità presente all’interno del rapporto malato tra Steve e Nicole e con la presa di coscienza  e la liberazione di quest’ultima dalla morbosità del compagno. Il poliziotto e la vittima dell’incidente in questo contesto risultano  essere più delle entità traghettatrici all’interno del percorso di Nicole. Se il tema in sé non sprizza di originalità, si può dire la stessa cosa della storia con cui viene rappresentato, con una trama che non convince e con l’impressione a fine visione che il film avrebbe potuto funzionare molto meglio come semplice divertissement(e con una sceneggiatura più coerente) e senza alcun sottotesto più impegnato. Perchè Gough, al netto di una non sempre efficace direzione degli attori, con la macchina da presa ci sa fare.
Fortunatamente infatti la pellicola si salva grazie a un ritmo a dir poco impeccabile e una messa in scena coinvolgente, con un paio di piani sequenza ben realizzati e non troppo invadenti e un montaggio che non sbaglia un colpo. Sottotesto o no è un film che a conti fatti riesce a divertire e farci passare un’ora e venti come se fossero 5 minuti. 

Voto 6.5/10  

 

NO MATARAS di David Victori (Spagna) - CONCORSO INTERNAZIONALE

Recensione di Daniele Badella

Tutto (cambia) in una notte infernale per il giovane Dani, mite impiegato di Barcellona che ha appena perso il padre malato, e proprio quando sta per decidersi a cambiare aria per viaggiare intorno al mondo viene scaraventato suo malgrado in un'insensata spirale di violenza. Se non può (più) essere l'originalità dell'assunto (l'esplosione degli istinti repressi dell'uomo tranquillo, la perdita dell'innocenza nell'impensabile crimine di sangue, la fuga del colpevole braccato) il pregio distintivo di un film come No matarás (Non uccidere); se il modello scorsesiano del detour metropolitano con gli afterhours ingaggiati in un pastiche di incidenti parossistici è ormai un marchio di subautorialismo underground offerto in infinite variazioni; e se anche sul versante del virtuosismo registico forsennato e adrenalinico in tempo reale (quasi) tutto è già stato detto - pensiamo al piano-sequenza unico di Victoria (2015) di Sebastian Schipper, che in forma e contenuti sembra il riferimento più vicino -, il film dello spagnolo David Victori riesce ugualmente a conquistare tenendoci col fiato sospeso per un'ora e mezza. Sapendo ben coniugare l'inarrestabile scorrimento dello stile dopato e ipercinetico, e della stordente pulsazione sonora, a uno script di rilanci continui che garantisce ritmo infallibile e tenuta sicura fino al termine della notte. Con la scelta finale del protagonista su cui pesa il giudizio (sospeso) e lo sguardo dello spettatore direttamente chiamato in causa. Puro cinema (in) movimento.

Voto 7.5/10 

 

THE SPELLBOUND di Pascal Bonitzer (Francia) - CONCORSO INTERNAZIONALE

Recensione di Daniele Badella

No, Hitchcock non c'entra nulla, il titolo internazionale è solo la traduzione, forse più catchy, dell'originale Les Envoûtés. L'attore e sceneggiatore francese - con all'attivo qualche regia - Pascal Bonitzer si cimenta con la vicenda di Coline (Sara Giraudeau), fragile e introversa redattrice di rivista al centro di un misterioso triangolo di apparizioni e sparizioni che vede coinvolti l'amica Azar e Simon, impenetrabile artista preda di un oscuro revenant materno, di cui si innamora. Il regista - anche sceneggiatore con Agnès de Sacy - vorrebbe agitare spettri fantasmatici al confine impercettibile tra il reale e l'aldilà, fra slittamenti di percezioni extrasensoriali e scavi introspettivi nei demoni dell'artista, in un thriller da camera à la française, cercando di ricreare una patina d'autore alla rincorsa di parenti nobili (Polanski, l'Assayas di Personal Shopper e delle nebbie montagnose di Sils Maria, la kubrickiana Sarabanda di Haendel), ma lo sbadiglio è dietro l'angolo. Si naufraga presto in una storia involuta che procede a fatica tra passaggi vuoti e dialoghi sgonfi e stralunati, con rilanci privi di mordente. Senza mai riuscire a caricare di vera suspense l'atmosfera né a far leva sulla messinscena per dar forma e sussulti visivi al tema soprannaturale. I cambi di tono repentini e maldestri servirebbero ad assecondare lo spaesamento ingenuo, l'equilibrio precario e la surreale umoralita' della protagonista (in perenne e non sempre giustificata trance espressiva, in una caratterizzazione davvero irritante), ma finiscono per compromettere ogni possibile identificazione con lei e scoraggiare un benché minimo interesse per le sorti di un intrigo a cui non ci si affeziona mai, nonostante le potenzialità dell'intimo reticolo di incroci e desideri  messi in campo. Cosicché anche la - relativa - sorpresa finale si affloscia su se stessa senza troppo interesse, quasi adagiandosi a quella barzelletta (?!) inconsistente, più volte richiamata, sul torero che entra nell'arena... ma non c'è nessun toro e nessun arena (?!). Forse, a ben guardare, non c'è nemmeno il film. 

Voto 5/10

 

FULCI TALKS - Conversazione uncut con di Antonietta De Lillo (Italia) - EVENTO SPECIALE

Recensione di Daniele Badella

(SEMI)MITO D'OGGI

"Io parlo al Presente": è con lucida autocoscienza, con una profetica, perentoria consapevolezza che la viva voce pungente, arrocchita e incontenibile del "terrorista dei generi" Lucio Fulci si estrae, e si astrae, dalle video-interviste del giugno '93 raccolte a Roma dalla regista Antonietta De Lillo e dal critico Marcello Garofalo -, per giungere fino a noi, interloquire con l'attualità e interrogarla sotto nuovi aspetti. Qualificando l'autore-artigiano, "forse un artista", ancora, come prezioso e provvidenziale analista impietoso di questo tempo marcio e disperato. 
Ricompare qui, Fulci, irrompendo nel quotidiano incubo dell'isolamento pandemico, e ci fa l'effetto - sarà per l'immarcescibile reviviscenza mediale in formato videotape - del professor Oblivion cronenberghiano (folgorato da La Mosca, Lucio, si convinse a conservare l'umano nell'horror) che saggia e pronostica le forme di corpi e immagini del presente e del futuro, oltre a prenotare la personale assunzione nell'empireo del cult in veste di godfather of gore. Continuando a irretire e rivitalizzare, terremotandolo, il moribondo discorso sullo stato dell'arte e del cinema - oggi esangue come allora ma perfino peggio, con le sale svuotate e cadaverici film-zombi sopravvissuti in piattaforma (e chissà che ne avrebbe pensato, Fulci, di on demand e consimili, già disgustato dal modello catodico masticatore di un pensiero sminuzzato e pre-digerito) -, con l'immutato spirito dinamitardo dell'anarchico mite ma spietato, crudele, artaudiano, il bombarolo del raziocinio rassicurante sfregiato con la pura evidenza preideologica dell'orrore ("il cinema dell'idea per eccellenza"), del dubbio, del peccato, della morte. 
Montato analogico deliziosamente vintage, sporco, ellittico, spontaneo, rigorosamente uncut e senza peli, con Fulci inarginabile fiume in piena che in 80 minuti - ma staremmo ad ascoltarlo per ore - passa in rassegna, con l'estro micidiale di un intelletto onnivoro, con prosa dotta, scomposta e vulcanica di autorevole "semimito" dell'oggi (per autodefinizione), tutto il suo scibile umano, autobiografico, cinematografico (gustose e puntuali le stilettate al rivale Argento, a sentir Lucio tragicamente sprovvisto di ironia, o la spassionata cura della barca a vela consigliata al nevrotico Bellocchio), sociale, politico, sentimentale (si iscrisse al Centro Sperimentale appena archiviata una delusione d'amore). Aneddoti, aforismi, concetti, lezioni di regia e frasi topiche: tutto risaputo (almeno per i cultori)? Sì. Ma nel dibattito critico che è stato sempre estremizzato, polarizzato tra le miopi barricate preventive di rigetto ("è Fulci, mica je possiamo da' 3 stelle") e le ancor più ipocrite e approssimative rivalutazioni ex post, pelosamente celebrative, a occhi chiusi, senza distinguo, con Fulci nel frattempo assurto a inestricabile enigma wellesiano (Fulci For Fake di Simone Scafidi; e Lucio ci scherza, sulla somiglianza fisica con Orson), ritornare alla prima persona, alla dirompente verve delle lezioni frontali del Maestro, con lo smalto rinvigorito di una decantazione in VHS del suo pensiero lunga quasi trent'anni (come il cinema, "decantatore dei sentimenti"), costituisce una graditissima iniezione di energica vitalità di un fare-cinema che nei cortocircuiti del visivo sempre ritrova "il dramma del tempo presente e futuro" (il nucleo essenziale di Sette note in nero  come epitome di un'intera poetica), e che è dunque discorso diretto ai posteri/contemporanei. Salutare sportellata che fa piazza pulita di tutte le esegesi e torna all'essenza di una personalità debordante e ineludibile, l'evaso costantemente "riacciuffato dai generi". Fulci Talks, a ruota libera, senza filtri e senza freni. Bugiardo ("ma meno di Federico") o no, pendiamo religiosamente dal verbo proferito dalle sue labbra. 

Voto 10/10

 

Una sull'altra di Lucio Fulci (Italia) - OMAGGIO A LUCIO FULCI

Recensione di Luca Orusa

Il ventunesimo film di Lucio Fulci segue le vicende di George Dumurrier, un medico, e di sua moglie, Susan, ricchissima e gravemente malata. Quando la donna muore, George riscuote i soldi di un’ingente assicurazione sulla vita che Susan aveva stipulato a sua insaputa. Ma una sera, mentre è al night con l’amante Jane, George rimane scioccato da una spogliarellista che somiglia come una goccia d’acqua alla moglie defunta…
Il primo e ultimo giallo classico di uno dei maestri italiani del cinema di genere. Prendendo ispirazione da Una donna che visse due volte(Vertigo) di Hitchcock, Fulci firma un film solido, che si inserisce nel genere giallo-erotico italiano pre-argentiano. Il film non ha la potenza visiva e visionaria che il regista romano maturerà in lavori successivi come E tu vivrai nel terrore...l’aldilà, ma mostra un certo menefreghismo dei limiti dettati dalla censura dell’epoca, mettendo in scena numerose scene di sesso, nudi integrali e una celebre scena lesbo tra Marisa Mell ed Elsa Martinelli, che per il ‘69 fecereno scandalo, tanto che il film venne denunciato come uno "spettacolo osceno". Fulci costruisce dei personaggi all’interno della pellicola che sono di fatto dei cacciatori e degli spregievoli egoisti ed è impossibile empatizzare per loro, apprezzando di conseguenza tutti gli avvenimenti che prevede la sceneggiatura riguardo ai loro destini.
Se il finale manca di coraggio a livello di sceneggiatura, con uno dei protagonisti graziato dalla catena di eventi quando avremmo voluto vedere volentieri per lui un destino ben peggiore, allo stesso tempo viene messo in scena in maniera estremamente innovativa, con il film che si trasforma in un servizio d’inchiesta televisivo. 

Voto 6.5/10 

 

Wildland di Jeanette Nordahl (Danimarca) - CONCORSO INTERNAZIONALE

Recensione di Daniele Badella

Il film danese del concorso, opera della regista esordiente Jeanette Nordahl, segue la parabola della diciassettenne Ida, orfana in seguito all'incidente automobilistico in cui perde la vita la problematica madre, e dunque affidata alla tutela della zia Bodil, severa e affettuosa matriarca che gestisce con fin troppa decisione, insieme a tre marziali e sbandati figli maschi, oscuri affari di famiglia. Kød & blod, carne e sangue, recita il titolo originale. Ma di stilizzate mattanze criminali ed esplosioni di violenza, intelligentemente, quasi non se ne vedono.
Il corpo gelido, estraneo e perturbante che viene dissezionato è quello della famiglia e delle sue segrete perversioni inaccessibili al mondo esterno. Lo stile della regista, con un occhio ad Haneke (il cui nichilismo filosofico e però lontano) e uno al matriarcato criminale di Animal Kingdom di Michôd e dei Gerhardt di Fargo 2, è fatto di un realismo secco e freddamente chirurgico; affonda un invisibile coltello di sottile, ma costante tensione provando a tagliare il velo sull'impalpabile ragnatela di legami parentali che avvincono Ida in un senso misto di calore, protezione, complicità, sospetto, paura e repulsione che arriva allo spettatore in tutta la sua inquietante ambiguità (anche grazie al lavoro su un sound design insinuante cha fa da spia dell'angoscia e del pericolo crescente): film sulla sindrome di Stoccolma, scontro fra istituzione familiare e assistenza sociale, apologo psicanalitico sulla madre buona e la matrigna cattiva, racconto di sfaldamento morale e della formazione di una (dubbia) coscienza individuale? Quasi tutto girato in interni,  che sono al tempo stesso rifugio e prigione, culla nativa e trappola mortale, con la messa in scena disseminata di piccoli segnali disposti nel vuoto e nel silenzio (una branda ripiegata su un letto, culla e ninnoli lasciati su un tavolo: segni dell'abbandono e del rifiuto o della sicurezza stanziale?), non risolvendosi nemmeno nel finale. Con un monito di dolorosa predestinazione a gravare sui destini ("per certe persone le cose vanno male ancora prima di cominciare").
L'impianto drammaturgico, semplice ma potente, si regge, e si legge, tutto sulle reazioni minime e gli scostamenti impercettibili della microfisica del volto pallido e muto, dello sguardo inespressivo ma vigile della protafonista (matura e convincente prova della giovane Sandra Guldberg Kampp), che ne radiografa, come su una lastra (in)sensibile, tutti gli scossoni emotivi, gli allarmi di coscienza, la difficoltà di prendere posizione e di assumersi delle colpe insopportabili - e ingiuste - di fronte all'evento-limite che la segna. Un po' troppo insistente e sottolineata la ripetizione della figura materna, ripartita su più personaggi, che, se funzionale al tema cardine della custodia affettiva e della responsabilità di fronte ai figli, sconta un po' di ridondanza. Certamente perdonabile nell'opera di un'esordiente. 

Voto 7/10