VITALINA VARELA(2020) di Pedro costa


Recensione e voto di Valerio Costanzia

La signora delle tenebre

“Tutto si rischiarava, la valle e i monti, e metà del cielo apparve come un puro chiaro di luna. Quella guancia radiosa, era la guancia che Giuda non aveva toccato, ma l’altra parte che aveva baciato rimase buia come se custodisse il suo delitto. Non emanava luce. Era un’immensa notte. Il mondo fu separato in due e quella metà restò avvolta nell’ombra. È quell’ombra da cui noi siamo stati fatti."

Dopo quarant’anni passati in attesa di ricevere un biglietto aereo, la capoverdiana Vitalina Varela arriva a Lisbona per raggiungere il marito Joachim, morto da tre giorni. Vitalina giunge in un luogo misterioso (“Le tenebre coprivano tutta la Terra”) un agglomerato di case diroccate, una sorta di ghetto o enclave avvolto nelle tenebre (il set principale del film è nel bairro di Cova de Moura dove vive una parte della comunità capoverdiana e dove vive anche Vitalina). 

È il nero il grande protagonista del film di Pedro Costa, il nero del buio e il nero della pelle di Vitalina e degli altri protagonisti del film, visi intensi scolpiti dalla luce, visi che emergono dalle tenebre, ma anche mani tremanti come quelli di Ventura, il prete, e piedi nudi, come quelli di Vitalina, quando scende gli scalini in metallo dell’aereo. Il metallo è anche quello delle porte degli anfratti in cui vive l’umanità del film, porte di ferro che emettono un suono sordo da scantinato, che stridono come quella della chiesa, ravvivate solo da vernici che sembrano voler ricacciare il buio e la miseria del luogo, disseminato da un reticolo di vicoli stretti, di persone che scorrono lentamente o che sono immobili, fisse, ieratiche. Anche la voce è ridotta a un flebile sussurro, un suono monologante carico di disperazione, che non rende giustizia alla sofferenza di Vitalina, alle sue rimostranze nei confronti di Joachim, ai torti subiti che vengono ripetuti e ricordati da lei come un mantra. Ma sono le donne stesse, malvage e distanti, che attendono all’aeroporto Vitalina e che le annunciano la morte del marito, a dirle in modo sprezzante che per lei non c'è più nulla che la leghi a questi posti (“Vitalina. Condoglianze. Sei arrivata tardi. Tuo marito è stato seppellito tre giorni fa. Qui in Portogallo non c’è più niente per te. La sua casa non è tua. Tornatene al paese.”). Solo il vagabondo ‘Ntoni che si ferma a mangiare una ciotola di fagioli (“Avevo dimenticato il sapore del mangiare di casa scordato i sapori”) sembra strapparle una parvenza di sorriso malinconico. 

Se non fosse per il rigore della messa in scena verrebbe da pensare a degli zombi, innocui e dolenti, ombre ammonitrici che si trascinano lungo i vicoli oscuri. Anzi, alcune scelte registiche, soprattutto luministiche, ma anche le cornici che spesso reinquadrano i volti, gettano una (non) luce inquietante di vaga appartenenza al genere. Sull’utilizzo della luce in funzione drammatica ci sarebbe da riflettere molto, come allo stesso modo è assai stimolante il lavoro che il regista compie sui codici luministici di base, un uso plastico della luce, anzi del buio che rimodella l’inquadratura, sia a livello statico, avvicinandosi così a quell’effetto centripeto evocato da Bazin che è proprio della pittura (in contrapposizione a quello centrifugo del cinema che invita l’occhio a uscire dall’inquadratura verso quel fuoricampo che lo condiziona e dal quale scaturisce la durata temporale) sia a livello dinamico quando è il personaggio stesso che si muove nell’oscurità e che si conquista porzioni di luce, un po’ come faceva il Kurz di Coppola.

Due momenti, nel film, per quanto concerne l’effetto cornice (le sovrinquadrature) e la dialettica buio/luce, raggiungono un’intensità e una efficacia notevoli: quella i cui Vitalina si inoltra in una piantagione di canne, inghiottita dal buio, fino a quando il suo volto ricompare dalle tenebre, e quella di Ventura quando, durante i suoi spostamenti, si ferma a pregare in un vicolo, inquadrato attraverso una sorta di raggera: un’immagine fortissima, quasi espressionistica, nella sua violenza formale.

La figura di Ventura, (già protagonista con Vitalina di Cavalo Dinheiro) è quella che condivide le pene di Vitalina: a loro il film dedica diversi momenti, soprattutto nella chiesa, quando Vitalina vorrebbe che lui celebrasse una messa: “Sono in lutto anch’io, tu hai perso tuo marito, io la mia fede in queste tenebre”. Anche la sequenza del temporale, che inizia con una inquietante inquadratura di un traliccio di legno, che non può non ricordare una croce, scuote la lentezza dello scorrere delle scene, evocando un’atmosfera spettrale. La luce arriva solo nel finale, significativamente ambientato nel cimitero, luogo lugubre per antonomasia, e poi in chiusura con un toccante flashback che ci riporta a Capoverde, mentre una giovane Vitalina costruisce con Joachim la sua casa. 

“Il buio si posa su alcune parti dell’immagine e, a volte, la divora tutt’intera.” (Jacques Aumont)

Voto: 9/10