IL cattivo poeta(2021) di Gianluca Jodice


Posa deposta, atto mancato: Il cattivo poeta e la spoliazione del mito dannunziano

Recensione e voto di Daniele Badella

Il cattivo poeta, racconto della spoliazione della figura e della mitologia di Gabriele D’Annunzio (Sergio Castellitto) negli ultimi anni di vita ritirata, comincia da una scena di vestizione: non quella del Vate, ma del giovane fascista in carriera Giovanni Comini (Francesco Patanè). Il quale, solo nel suo appartamento, si appresta a indossare la divisa nera adagiata sull’appendiabiti. Con la macchina da presa che ritaglia i dettagli di spille, fibbie, colletti, alamari e distintivi smaltati che il giovane federalino vi sistema e appunta sopra, con impeccabile puntiglio e fiera solennità, completando l’armatura fascista con l’altera esibizione del saluto romano allo specchio.

Anche D’Annunzio, più avanti, entra in scena introdotto da una divisa militare: l’uniforme da Comandante fiumano che l’algida concubina altoatesina Emy Heufler, in un gioco di seduzione erotica, si è gettata indosso sulla nuda carne, prima di sbottonarsela e passarla languidamente al Vate che, ripreso di spalle, chino sul letto, inconfondibile nel profilo aguzzo della testa calva, sembra abbeverarsi al sesso villoso e materno dell’amante, in piedi di fronte a lui, come alla ricerca di una nuova sorgente di vitalismo.

Vestizione e spoliazione. Splendore dell’atleta e decadenza del corpo. Giovanilismo imperioso e virilità svuotata. Con un semplice eppure fondamentale parallelismo a distanza – e dietro le quinte – tra vesti, pose e gestualità agli antipodi di Comini e D’Annunzio, la regia di Gianluca Jodice rimarca persino nel gioco dei costumi, e dei corpi che li sfoggiano, il dualismo che percorre tutto il film sull’asse scenografico, e che cementa sensi e spirito del tempo dell’epoca descritta: l’opposizione tra la saldezza marmorea e immutabile, la costruzione magniloquente e stentorea dell’architettura fascista, e la decostruzione esangue e avvilente dell’inimitabile poeta-Superuomo, ridotto a sopravvivere all’ombra di se stesso tra chincaglierie, velluti e broccati nella raffinata invasione di cimeli che decora le stanze del Vittoriale.

Il gigantismo marmoreo e statuario del Duce, e il (mezzo)busto eroso e infiacchito del Comandante. Il monumento alla vita (fascista), e il mausoleo della morte incombente sul Poeta. Le perfette, simmetriche e incombenti geometrie del razionalismo che sovrastano e inghiottono Comini tra palazzi e saloni del potere, e il disordine rapsodico e frammentato, i resti e le macerie dissepolte dal tempo che cullano la solitudine terminale di D’Annunzio sulle rive del Garda, tra le spoglie immortali della Regia Nave Puglia e i ruderi dell’anfiteatro che ne rimarcano la tragica incompiutezza del destino e delle illusioni perdute.

Perché l’altra grande figura stilistica che segna Il cattivo poeta è proprio l’atto mancato, il verso (narrativo) illuminante nel vortice creativo della scrittura ma tronco e interrotto nell’impatto squalificante con la realtà, lo iato tra la folgorazione intima della nobile idea poetica e la sua cupa, estraniata corruzione nelle bassezze dell’uomo politico per le masse. Frattura che il linguaggio filmico prova a saldare in ciò che resta dei fulmini visionari e della sensibile lucidità residuale di un affabulatore carismatico e auto-apologeta come D’Annunzio (bel momento, la storia sulle piume di pavone offerta a Comini sul ponte della nave). Costretto dalla paralisi e dall’infermità fisica alla negazione del movimento verso la ribalta, all’impossibilità di varcare (ancora) la soglia del balcone che porta alla comunione gloriosa con la folla depositaria del destino di cambiamento e rivoluzione. Se non nella copia sbiadita e traballante – ma lo stesso dignitosa – di un’ultima annunciazione in ciabatte ai reduci, penzolante alla ringhiera come una bandiera insanguinata che rifiuta di ammainarsi (“Noi siamo ancora qui”).

È la posa deposta, la scena madre che gli ruba una volta per tutte, a Verona, Mussolini: possente caricatura, versione rozza e deteriore, pericolosa e degenerata dell’uomo del popolo dannunziano. Ma anche quella a cui gli italiani, amanti di pessimi attori e cattive rappresentazioni – dice Luisa Baccara – scelgono di affidarsi mentre stanno per entrare nel capitolo finale della (loro) Storia: “Il buio” del Secolo destinato a estendersi su tutto, non solo sul Poeta che spira.

Voto 7/10