BORAT E IL DRAMMATURGIDO


A cura di Daniele Badella

Di solito, quando si discute, un po' oziosamente, di specifico cinematografico, si parla di quanto sia drammaturgicamente felice, visivamente efficace - e/o moralmente lecito - forzare il reale, per farlo il più possibile aderire a quanto si vuole rappresentare/concettualizzare. E, parimenti, su quanto un'immagine finzionale e un'estetica iperrealisticamente "costruita" - anche parzialmente - possano servire allo scopo di offrire una resa del vero - o almeno del verosimile - in una mimesi trasparente che metta in luce, rivelandola, un quid di verità supplementare, un surplus di senso ulteriore non immediatamente visibile "in natura". Per questo, in Borat Seguito di film cinema, che elude completamente questa dicotomia, è inevitabile trovarsi spiazzati in un non-luogo visivo, senza appigli e conferme, davanti all'immagine di Rudolph Giuliani supino su un letto appartato, intento ad armeggiare (?) con la mano dentro la patta dei pantaloni semiaperta, di fronte a Maria Bakalova, l'attrice ventiquattrenne bulgara che interpreta Tutar, la figlia "ingabbiata" di Borat, qui rivestita dei panni succinti e generosamente ammiccanti di una (finta) giornalista che pare uscita dalla scuderia Fox News di Roger Ailes.
Che succede? A cosa stiamo assistendo? Cosa abbiamo visto, cosa abbiamo creduto di vedere? Cosa ci viene suggerito che si debba vedere? Quale tipo di immagine e realtà si viene a formare? Domande inevase. O meglio, non sono quelle giuste. Perché la scena in questione, colta in flagrante da una telecamera nascosta, in sé non contiene alcuna vera allusione scoperta, presentandosi piuttosto neutra, reticente, manchevole. La regia non forza né sottolinea, agendo letteralmente di riflesso, in piena trasparenza, senza (apparente) volontà di perlustrare un clamoroso dietro la quinte, di snidare un segreto compromettente: alcuni totali a 180° nella stanza da letto, di fronte e di spalle a Giuliani sdraiato, intervallati da una mise en abîme dall'anticamera che proietta e raddoppia in uno specchio circolare l'immagine dell'uomo e di Tutar. Semplicemente, c'è solo quello che (non) vediamo (o crediamo di vedere). Allo stesso modo - sottile, discreto - si comporta la recita della Bakalova. La scrittura della gag si ferma a un "beviamo qualcosa in camera da letto", senza mai propriamente affondare nella spinta provocazione ad arte, nell'adescamento a favore di telecamera che ingeneri l'infrazione del malcapitato. Con fiducia assoluta e sbalorditiva nell'unicita' dell'istante cinematografico, nella zona-limite dell'evento (non dimentichiamo che l'incontro/trappola con Giuliani non può essere ripetuto, ha una sola possibilità di verificarsi ed essere filmato, di avere "narrativamente" successo), Sacha Baron Cohen abdica al ruolo di burattinaio orchestratore-regista della candid camera politica, e, una volta entrati nella stanza, lascia che sia lo stesso Giuliani a condurre il gioco, padrone, protagonista, primo costruttore della scena, diretto autore/interprete del suo senso inconsapevolmente ambiguo e allusivo, a suo detrimento e - di fatto - senza aiuti dall'esterno (Tutar gli sfila semplicemente il microfono). E così facendo si trascina dietro lo spettatore, che, stanato nella sua colpevole complicità maliziosa di osservatore voyeuristico tra paranoia e sessuofobia latente, completa in piena autonomia - a partire da pochi elementi: una stanza appartata, un vecchio repubblicano sdraiato e sbottonato, un'avvenente ragazza bionda - la scena nel senso desiderato (se la vede Zizek, confermerà come il cinema non offra l'oggetto del desiderio, ma insegni "come" desiderare), credendo di aver visto ciò che non ha visto, perché Baron Cohen non ha fatto troppo per mostrarcelo (È Giuliani che sceglie di sdraiarsi, quando potrebbe rimanere seduto immobile per tutto il tempo).
È perciò ancor più impagabile e geniale il fulmineo ingresso in campo di Borat nella stanza - in mutandoni e body ascellare rosa - che affloscia il teasing come un coito interrotto sul più bello. Non tanto per smascherare e condannare il marpione in braghe calate (già inconsciamente assicuratosi al pubblico ludibrio), come una Iena qualsiasi, ma, paradossalmente, per gettare ancor più scompiglio, confusione, indecidibilita' surreale, nel gioco equivoco di corpi sulla scena. Offrendosi, stavolta, dichiaratamente, scompostamente ("lei è troppo giovane. Prendi me. Prendi mio ano"). Dando sostanza, solo ora, a un'interpretazione ipersessualizzata delle immagini (a onor di cronaca, Giuliani spiegherà che si stava semplicemente risistemando la camicia nei pantaloni...). Al di là del riso crasso e gustoso e della vittima celebre, il frammento rimane in testa come il simbolo e il sintomo più evidente di come funzioni l'apparato cinematografico di Sacha Baron Cohen: zona franca, ibrida, permeabile, che tra l'artificio del travestimento, il trucco della fiction e la sublime beffa del reale gioca coi ruoli in campo nella visione spostando subdolamente i meccanismi di attesa e percezione. Aprendosi spontaneamente e generosamente ad ogni senso, sviluppo e direzione possibili. Per dirci che se l'America è sempre intrappolata nella scena primaria e avvilente di un vecchio che si slaccia i pantaloni davanti a un'ochetta, a noi continua a piacere guardarla, questa scena. E magari vogliamo partecipare, aggiungendo i nostri sguardi e i nostri corpi.