HIS HOUSE (2020) di Remi Weekes


Recensione e voto di Daniele Badella

Se è vero che ogni storia d’amore è anche, sempre, una storia di fantasmi, è altresì vero che, negli ultimi tempi, l’impianto di genere della ghost story sembra il più fecondo - e paradossalmente credibile - per restituire le tensioni razziali, l’alienazione e le disuguaglianze profonde del contemporaneo, paralizzato nella paranoia dell’invasione e nel timore dello spossessamento (dice qualcosa Parasite?).   

His House arriva buon ultimo a dire la sua sul terreno dell’Altro e dell’Estraneo che insidia e perturba la quiete dell’Io privato e familiare. Accampandosi in un duplex stilistico che fa convivere la lezione dell'horror e del social thriller di Jordan Peele (angoscia della sostituzione, usurpatori di corpi e identità, presenze nascoste di doppi oscuri) con le nuove codificazioni simboliche del revenant applicate alla figura del migrante rifugiato, del non-morto, dell’elemento fantastico-soprannaturale come reietto del limbo urbano, variamente emerse in opere recenti come Atlantique (2019) di Mati Diop, As boas maneiras (2017) di Marco Dutra e Juliana Rojas e Zombi Child (2019) di Bertrand Bonello. Tra il registro metaforico e la cupa radiografia del reale, l’esordio di Remi Weekes sublima la riflessione politico-sociale che il dramma della coppia di transfughi porta inevitabilmente appresso abitando a pieno titolo, con la suggestione inquieta e straniante delle sue immagini, una sozza e fatiscente haunted house in cui lo scenario rabbuiato e allucinato si carica di rimossi psicanalitici e paurose materializzazioni dell’inconscio colpevole. Allestendo una sottile suspense che si rafforza col procedere del racconto verso un brillante shyamalan twist in cui echeggia il ribaltamento visivo e morale del The Others (2001) di Amenábar. Dove l’altro - ospite impostore - siamo, ancora e sempre, noi (chiudendo così il cerchio con l’ultimo Peele). Tra la people under the stairs di un Wes Craven e la clausura delirante che riconvoca le occulte responsabilità genitoriali di Vivarium (2019) di Lorcan Finnegan. Sopra tutto, il peso della maledizione dell'apeth (la strega notturna del folklore spiritualistico della tradizione sudanese). A gravare sui destini e offuscare i contorni domestici di un abietto neighborhood alla deriva perlustrato come mappa labirintica e disorientante.

Bol e Rial, rocambolescamente scampati al naufragio in mare, ancor più miracolosamente beneficiati di un rifugio nella suburbia londinese, incarnano tipologie opposte di integrazione e (ri)costruzione dell'identità: lui si sforza in ogni modo di estrirpare le radici del passato, ansioso di imborghesirsi il più in fretta possibile, pur in in mezzo al pattume disastrato; lei non dimentica da dove proviene, recando incisi sulla carne, col coltello, i segni distintivi delle tribù da cui discende, pur senza appartenenere a nessuno ("I survived by belonging nowhere", confessa alla dottoressa). È la medium metanarrativa che apre allo storytelling macabro e fiabesco (negato da Bol fino all'autoinganno), al rito di espiazione del trauma originario che il compagno terrebbe ben nascosto dietro la carta da parati consunta. 

Non si tratta solo di ammettere una verità insopportabile come premessa a una nuova forma di convivenza con i propri fantasmi. Senza manicheismi, con un pessimismo e un disincanto singolari per un'opera prima che certo squaderna tutte le bassezze umane del razzismo latente, l'edificazione dello spazio vitale della coppia black avviene a prezzo dello stesso peccato originale che macchia il suprematismo bianco nel mondo anglofono: il sacrificio - di sangue - necessario ai colonizzatori, l’istinto predatorio nel fagocitare corpi e spazi altrui come proprietà private. In una sorta di ciclico ritorno del mito oscuro dell’homo homini lupus che sembra ripetersi e riguardare tutti, rifrangendosi oltre le divisioni razziali. Facendosi universale, spia e specchio di una più diffusa e disperata volontà di affermazione individuale a ogni costo.

Un’opera capace, in tal modo, di sfidare la falsa coscienza di tutti. La disaffezione distratta, superficiale, distante (come il tribunale dei burocrati nella palestra del centro accoglienza), laddove non apertamente ostile, alle periferie del mondo. L'assuefazione inerte e anempatica di fronte alle immagini del dolore istantaneamente rimosse. Che tornano pressanti e inquisitorie, recuperando piena valenza, impatto e portato emotivi, con lo shock visivo e l'evidenza metaforica di un incubo dell’orrore attecchito tra le mura di casa (nostra?).

 Voto 7.5/10