TORINO FILM FESTIVAL 38 - CONCORSO UFFICIALE


 

Recensioni dei film in concorso presso la 38esima edizione del Torino Film Festival.

Moving on di Yoon Dan-bi(Corea del Sud)

Recensione di Valerio Costanzia

Strade perdute e ritrovate
Il cinema asiatico, in particolare quello giapponese e coreano di ambientazione metropolitana, ci ha abituato alla presenza di quei piccoli furgoncini, spesso bianchi, che si muovono per le vie delle città, con a bordo famigliole disfunzionali in fuga da debiti, povertà e mestizie varie. La forma stessa del furgoncino, così buffa nella sua assenza di aerodinamica, con gli abitacoli stretti in cui i passeggeri sono pressati nei posti davanti - perché spesso il resto del mezzo è fagocitato da cianfrusaglie o attrezzi da lavoro – suggerisce il dipanarsi delle vicende umane dei protagonisti, anch’essi pigiati e strapazzati dalla vita, anch’essi buffi, fuori posto, in cerca di una direzione, di voltare pagina e andare avanti. Anche la famiglia un po’ sgarruppata, ma felice a suo modo, di Father and Son di Kore’eda, ovvero la famiglia Saiki, possiede un furgoncino bianco che in questo film marca quanto mai la differenza di classe sociale con la famiglia Nonomiya, che si sposta invece su una silenziosa, asettica, costosa e lussuosa berlina blu stile yakuza. Ma c’è anche Takeshi Kitano che in Hana-bi usa un furgoncino simile, ma di colore blu che ben si staglia con il mood malinconico e struggente del film. Kitano usa questo mezzo solo con la moglie, quando si allontanano dalla città per andare a vedere la neve e poi alla fine, quando si dicono addio per sempre sulla spiaggia. 
Moving On, della regista coreana Yoon Dan-bi, sembra muoversi verso Kore’eda, anche se la primissima scena non può non far tornare in mente il tugurio in cui vivono i personaggi di Parasite, (certo non c’è il water sul davanzale ma poco ci manca). Dopo che il papà Byung-kie e i due figli, Okju e Dongju, hanno salutato la loro vecchia casa, i tre salgono a bordo del loro furgoncino già pieno zeppo di affetti personali e scatole di scarpe (scopriremo poco più avanti che il papà sbarca il lunario facendo l'ambulante). Il camera car iniziale sembra procedere solidale con il furgoncino, in realtà subito si stacca e si muove per conto proprio mentre ai lati scorrono le immagini delle case fatiscenti dove abita la famigliola. E più si allontano dal loro quartiere più il camera car sembra abbandonarli, staccarli come una safety car che dopo aver scortato e messo in sicurezza un’auto a un certo punto prende velocità e l’abbandona. Lo stacco avviene dopo che il furgoncino si immette sulla main stream: ai lati dell'inquadratura indietreggiano case, negozi, attività, insomma il milieu borghese al quale Byung-kie sembra aspirare.
Moving On, ovvero andare avanti, voltare pagina. Ma il problema, qui, è che stiamo andando indietro, il camera car è un carrello a precedere, loro guardano dove stanno andando, noi spettatori no, il nostro voyeurismo della porta accanto è limitato dai bordi dell’inquadratura, il fuori campo si svela poco a poco e attesta, se ce ne fosse bisogno, che è un viaggio denso di incognite, con l’insicurezza di chi retrocede e non sa ciò che lo aspetta. La canzone dolente che accompagna il viaggio ci dice che sarà un posto lontano, dove abita un amore e che il cuore triste piange per una mancanza (I long for that faraway place/where my beloved reside/a such a distance/my heart aches even more/As i walk a cosmos-strewn path/thought echo in my mind/and my sad  heart cries/i miss you). Sarà vero? In parte, perché il posto non è così lontano e ad aspettarli c’è il nonno che non sa, forse, che la gita sta per trasformarsi in una residenza prolungata. La nuova casa, grande, su due piani e con un giardino, non allenta tensioni, anzi le polarizza: a farne le spese sembra essere la figlia adolescente, Okju, mentre Dongju se la cava con i suoi divertenti balletti. Il furgoncino parcheggiato davanti alla casa è lì per ricordare da dove sono venuti e che, forse, non se ne andranno più. Durante un pranzo con il papà e il fratello c’è un momento in cui il malessere di Okju si scioglie in un pianto: la regista coglie questa emozione rubando a Okju un suo fugace sguardo in macchina. Sembra quasi la serena accettazione delle cose della vita che il cinema di Ozu ci ha insegnato e che Yoon Dan-bi sembra citare esplicitamente attraverso la retorica stilistica del maestro giapponese con le 4 inquadrature frontali, durante il pasto della veglia, e le 4 inquadrature finali marcate dall’assenza: l’inquadratura della foto dei nonni, quella delle scale, quella dello stendino senza panni e infine il giardino. Luoghi dell’assenza ma densissimi di emozioni. La cosa curiosa è che le 4 inquadrature frontali del pasto della veglia hanno sempre alla spalle l’altare con la foto del nonno, mentre nell’inquadrature totale sono tutti seduti ai lati. Insomma, Yoon Dan-bi gioca con il montaggio mantenendo la profondità di campo e rendendo così esplicita la finzione e l’artificiosità della sequenza, sotto lo sguardo sornione del nonno. Il cinema mente 24 volte al secondo.

 

Botox di  Kaveh Mazaheri(Iran)

Recensione di Luca Orusa e Daniele Badella 

Vincitore dei premi come Miglior Film e Miglior Sceneggiatura presso la 38esima edizione del Torino Film Festival. Una black comedy stramba calata in un ménage familiare al femminile e in un’ambientazione che si è più soliti associare al “cinema del reale” o a un registro più drammatico. Il film d’esordio di Kaveh Mazaheri si ispira pesantemente al mondo creato dalla filmografia dei Fratelli Coen(Fargo su tutti, con un paio di inquadrature palesemente citazionistiche), eliminandone ogni elemento sanguinolento e gli eccessi e restituendoci una commedia nera atipica per la cinematografia iraniana. La protagonista Akram, interpretata dalla bravissima Mahdokht Molaei, diventa entro pochi minuti un personaggio iconico: affetta da ritardo mentale, istintiva, ingenua, ma tutto sommato parecchio orgogliosa(ceffone al nipote?), è una persona estremamente legata ai membri della propria famiglia, i quali non riescono a comprendere il disagio con cui vive e, di conseguenza, rimangono vittime dei suoi “dispetti”, il fratello in primis. Il film inizia proprio dall’incidente di cui egli è vittima e da qui il racconto inizia sia per noi che per Akram, entrambi spettatori passivi degli avvenimenti e della vita. Lei tuttavia, come tutti i protagonisti di ogni film che si rispetti, ha qualche potere sulla pellicola e quando non è soddisfatta di qualcosa interviene, dando un tocco di imprevedibilità al susseguirsi degli eventi e creando non pochi problemi alla sorella Azar, la quale è nel procinto di iniziare una nuova attività lavorativa dopo la dipartita del fratello. Il rapporto tra le due risulta essere l’aspetto più sincero e riuscito del film. Mazaheri adotta una regia statica per quasi tutta l’opera con una fotografia votata al grigio, quasi a sottolineare l’universo parallelo in cui è ambientata la vicenda. Il risultato complessivo non è sicuramente qualcosa di mai visto, tuttavia il film risulta essere estremamente godibile, con un finale forse troppo affrettato, ma perfettamente coerente con il resto dell’opera.

Voto 7/10

 

Sin señas particulares di Fernanda Valadez(Messico-Spagna)

Recensione di Daniele Badella 

Il tema della perdita e del legame madre-figlio rintracciati in un road movie atipico e scarnificato. Il titolo diventa quasi una certificazione sull'esito finale: una storia asciutta, corretta, con però troppo poco da segnalare. La storia di una madre messicana alla ricerca del figlio scomparso cerca una chiave estetica nella non riconoscibilità di personaggi senza volto e senza fisionomie, introdotti soltanto dalla voce o da dettagli, in cui gli intensi e prolungati primi piani della protagonista Magdalena non trovano un corrispondente in cui affacciarsi nel controcampo. Si riflette sull'indifferenziazione spersonalizzante di corpi deambulanti come living deads, che, senza aspettare di andare incontro alla morte, già camminano in una fossa comune di anonimato e annullamento di identità, come al deposito delle salme. "Ci assomigliamo tutti di spalle", dice il giovane Miguel. Uno qualunque, tratti somatici comuni, senza caratteri, attributi, personalità. Pedinato appunto di spalle da un piano sequenza al suo passaggio alla frontiera, contrappunto visivo eccessivamente gridato e sottolineato con enfasi dal sound design. Se il mistero della ricerca e la spina dorsale del dramma sono in qualche modo mantenuti - anche allargando il quadro all'elemento naturale in uno spazio aperto dagli echi western (tramonti e luce diurna, gli stormi di alberi dai rami neri e filiformi specchiati nell'acqua, il fuoco che arrossa i volti di Miguel e Magdalena, lo stesso rosso della nuvole che si carica del sangue versato come nefasto segnale di fumo), dove il film si sfilaccia è in una simbologia un po' facile del Male sotterraneo e inconoscibile (la silhouette diavolesca con corna e coda), e in un blurring della messa in scena gratuito e banale. 

Voto 6.5/10 

 

The Evening Hour di Braden King(USA) 

Recensione di Luca Orusa

L’estrema periferia americana è al centro di The evening hour, opera prima di Braden King. Se il film si fosse concentrato sulla realtà di una cittadina rurale fuori dal mondo e dal tempo e dimenticata da Dio sarebbe stato probabilmente una pellicola interessante. Ma non è questo il caso. La narrazione corale che ruota attorno a Cole, infermiere in una casa di riposo e spacciatore di antidolorifici nel tempo libero, si limita a raccontarci una storia senza alcuna ambizione di creare un discorso più ampio. Di base non ci sarebbe nessun problema in tutto ciò, se non fosse che la pellicola non decolla, non riesce a stimolare il nostro interesse, non ci convince nella caratterizzazione dei personaggi, interpretati in maniera appena sufficiente dal cast, e dura davvero troppo(una mezz’ora buona in meno avrebbe giovato al tutto). La regia è l’unica nota positiva, semplice e asciutta, sulla linea dei film indipendenti americani degli ultimi anni.

Voto 5/10

 

Las ninas di Pilar Palomero(Spagna) 

Recensione di Daniele Badella

L'esordio vintage della spagnola Pilar Palomero (la storia della piccola e sensibile Celia Mateo alla prese con le prime tappe della crescita in un collegio di suore nella provincia catalana di inizio anni '90) è un fresco, sincero e affettuoso coming of age al femminile intercettato in quel lasso di tempo esistenziale sospeso e traballante che è la preadolescenza, nel quale è ormai tardi per credere con fiduciosa ingenuità ai racconti materni, obbedendo ai dettami religiosi senza porre domande, ma ancora troppo presto per affacciarsi al futuro forti di un'identità solida e sicuri di idee e obiettivi propri. Non si vede (ancora) uno sbocco davanti, non si può (più) tornare indietro: uno stallo paralizzante, un teorema dell'incertezza che la regia di Palomero perlustra nel movimento incerto e ondulante di Celia nello spazio della scuola, perimetrandolo con un bel pianosequenza ad accompagnare il percorso elastico e speculare, senza entrata e senza uscita, della ragazzina, che entra in solitaria nel cortile della scuola, attraversa il corridoio e, all'ultimo momento, prima di entrare in classe, si blocca sulla soglia, fa dietrofront e torna verso l'esterno, fino al cancelletto principale che trova sbarrato. Ne' dentro, ne' fuori. Niente ingresso e niente fuga. La crescita fatta di linee e formule tracciate col gesso, passi imparati a memoria e passaggi obbligati. È questa gabbia rigida all'apparenza immutabile che Las Ninas, perfettamente in bilico tra energia contagiosa e stile sussurrato, canzoncine in musicassetta e silenzi eloquenti, riesce a scalfire con la capacità di calarsi con empatia, senso della prossimità e spontanea naturalezza, a ginocchia incrociate, tra giochi, schermaglie, pettegolezzi e leggende metropolitane, segreti, prime scoperte e malizie, piccole e grandi ribellioni della protagonista e del suo coro di voci.

Voto 7.5/10

 

Memory House di João Paulo Miranda Maria(Brasile) 

Recensione di Luca Orusa

Una creatura singolare nonché un’opera estremamente coraggiosa l’esordio di João Paulo Miranda Maria. Memory house è un film che narra di razzismo, neocolonialismo e di perdita delle tradizioni. L'anziano Cristovam si trasferisce dal nord al sud del Brasile, in una comunità xenofoba popolata principalmente da discendenti di coloni austriaci, a seguito della chiusura di un caseificio del gruppo austriaco Kainz. La prima metà del film viene girata come se fosse un horror, ispirandosi a piene mani allo stile che ha fatto la fortuna di registi come David Robert Mitchell e Ari Aster, con carrellate avanti lente e un senso di attesa continuo, dando alla pellicola un'aura spettrale. Il fantasma del razzismo aleggia attorno a Cristovam, il quale ritrova in una casupola abbandonata oggetti della tradizione più antica del Brasile, che lo spingono a un ritorno all’anima primordiale del Paese, tribale, pura, ma anche violenta. Nella seconda metà le sequenze oniriche diventano sempre più predominanti, a tratti in maniera eccessivamente gratuita, e Miranda Maria non riesce a mantenere completamente il controllo dell’opera, ma questo non gli impedisce di costruire un film interessante e stratifitcato, capace di trattare determinate tematiche in maniera indubbiamente innovativa. 

Voto 7/10

 

Eyimofe - This is my desire di Arie e Chuko Esiri(Nigeria)

Recensione di Jacopo Barbero

L'esordio al lungometraggio dei gemelli Esiri, nigeriani classe 1985, si fonda su un topos fondamentale del cinema africano: il sogno dell'emigrazione verso l'Europa, già al centro del cult "Touki Bouki"(Diop Mambety, 1973) e anche del recente "Atlantique" (Diop, 2019). "Eyimofe" rappresenta chiaramente il tentativo di elevare il cinema africano contemporaneo (e quello nollywoodiano in particolare, non esattamente noto per le proprie qualità artistiche) ai livelli di elaborazione visiva e intellettuale del cinema occidentale. I due fratelli si sono formati nelle più prestigiose scuole di cinema newyorchesi (NYU e Columbia) e confezionano un prodotto visivamente raffinato, forse fin eccessivamente artificioso nella costruzione delle immagini, chiaramente debitore nei confronti di una formazione tecnica rigorosa, che talvolta però rischia di ingabbiare l'unicità del contesto narrativo nei fin troppo conosciuti filtri cromatici di un certo cinema d'autore statunitense. Se la vicenda non brilla per originalità (il film segue due storie parallele, in cui il sogno di emigrare non solo fallisce, ma pare essere già dimenticato a pochi minuti dall'inizio, sommerso dalle complicazioni della vita africana), a elevare il film sono la bravura dei protagonisti e la delicata caratterizzazione dei personaggi, che riesce a donare tridimensionalità e umanità a tutti i ruoli, anche a quelli apparentemente più ripugnanti. Teatro di tutto ciò è una Lagos mai vista prima, ripresa soprattutto in interni, colta nella sua quotidianità, senza alcun fastidioso tratto di esotismo.

VOTO: 7.5/10